LETTA NON BATTERA' MAI LA CRISI

Per uscire dalla recessione bisogna ridurre le disuguaglianze: solo così, infatti, ripartono i consumi. Ma questo governo non vuole o non può farlo, anche perché è in ostaggio dei berlusconidi. Crescita degli indigenti, impoverimento delle classi medie e ulteriore concentrazione di ricchezze in mani sempre meno numerose: questi i mutamenti più vistosi del quadro socio-economico indotti dalla dura crisi degli ultimi anni. E non solo in Italia, dove l'ascensore sociale si è forse più bloccato che altrove. Poiché si tratta di un dato di fatto convengono su questa fotografia della disuguaglianza perfino i liberisti più incalliti, anche se a loro giudizio a questa situazione si potrà porre rimedio solo lasciando che la mano invisibile dei mercati svolga fino in fondo il suo ruolo salvifico di creazione di maggiori risorse da distribuire (poi) fra tutti. Contro questa ideologia dominante da decenni in Occidente a poco o nulla sono valse le critiche di economisti di pur rinomata reputazione. Da ultimo il premio Nobel, Joseph Stiglitz, ha colto però un vero e proprio tallone d'Achille della costruzione liberista. Il suo teorema si può sintetizzare così: la crescente disuguaglianza nella ripartizione delle risorse non è soltanto effetto della crisi ma ormai ne è divenuta anche causa di aggravamento. La spiegazione dell'assunto parte da uno dei fattori più critici del momento: la caduta della domanda per consumi su cui si è innestata la frenata degli investimenti in una spirale negativa che toglie spazio vitale anche agli spiriti animali del mercato nella loro spinta alla creazione di maggiore ricchezza. Tutto ciò per la semplice ragione che gli "happy few", pur carichi di soldi, alimentano solo parzialmente i consumi, la cui tenuta o crescita dipende in via prevalente dalla quantità di reddito a disposizione della grande massa di chi ha poco e deve spendere tutto per sopravvivere. Per questo teorema Stiglitz non riceverà un altro Nobel: le sue tesi, infatti, non sono poi così originali. Ottant'anni fa aveva imboccato la stessa strada J. M. Keynes nei suoi studi su T. R. Malthus che, ai primi dell'Ottocento, aveva offerto al mondo un'interpretazione lungimirante sul rapporto fra distribuzione della ricchezza e vitalità del circuito consumi-investimenti. Una lezione che calza a pennello per i guai in cui ci si dibatte oggi. Per esempio, a fronte di una crisi esplosa a causa di un'abnorme finanziarizzazione dell'economia, ci si continua a chiedere come sia stata possibile la formazione di bolle speculative sconsiderate sui cosiddetti titoli tossici. La risposta è già in Malthus: quando continua ad accumularsi in poche mani, il denaro si allontana dai consumi produttivi e viene inesorabilmente attratto da impieghi in avventure puramente cartacee. Quindi la disuguaglianza crescente nella ripartizione delle ricchezze è doppiamente responsabile. Dapprima di aver creato i presupposti dei terremoti finanziari che hanno inaridito i flussi verso l'economia reale. Poi - cioè ora - di essere diventata il maggiore ostacolo a una ripresa dei consumi che, trascinando gli investimenti, rimetta in moto il volano della crescita economica. Passaggio sempre più indispensabile sia per aggredire il malessere sociale da mancanza di lavoro sia per rendere più agevole il risanamento delle finanze pubbliche indebitate. In questi giorni nel Paese si moltiplicano i segnali d'allarme - da parte politica e anche imprenditoriale - sui rischi che il disagio dei ceti indigenti e di spezzoni di espulsi dalla classe media si possa saldare ingenerando diffusi sentimenti di rivolta. Pur senza la pretesa che le nostre classi dirigenti si rileggano Malthus, Keynes e Stiglitz, viene spontaneo suggerire che esse impieghino più utilmente il loro potere. Anziché ricorrere ad avventurosi esercizi dilatori sull'impianto della Costituzione o a baloccarsi con l'Imu e consimile bigiotteria fiscale, prendano coscienza che una più equilibrata distribuzione della ricchezza non sarebbe un atto di solidarietà sociale, ma soprattutto un affare economico per il Paese. Quindi, la prima e più urgente delle riforme istituzionali: resta da chiedersi quanto essa sia praticabile da un governo ostaggio dei berlusconidi.

Commenti

Post più popolari