LE PAROLE DI LETTA SULL'AUSTERITY PREOCCUPANO BERLINO

Con Letta, Hollande e Rajoy troveranno un alleato per allentare il rigore. Guarda anche il video A Wolfgang Schäuble le parole di Enrico Letta fresco di nomina – «serve un forte impegno in Europa, anche per cambiare quelle politiche troppo attente all'austerità che non sono più sufficienti» – non devono proprio esser andate giù. «Insomma – ha tuonato il ministro delle Finanze tedesco in un’intervista a Deutschlandradio (il giornalista gli fa sentire la registrazione originale, con doppiaggio in tedesco, delle parole del premier incaricato) – se ora proprio noi crediamo che l’Italia sia un modello di come si deve fare per portare l’Europa sul cammino di una crescita stabile, beh, vuol dire che nelle ultime settimane mi sono perso qualcosa». Parole quasi brutali che ben delineano la crescente irritazione tedesca per il fronte montante in Europa contro l’austerity. E già perché le parole di Letta contro l’austerity sono state le più notate oltre i confini nazionali, con giubilo di Parigi e Madrid, ma anche Lisbona e Atene. Non è un caso se il Financial Times titola: «la scelta del presidente del
Consiglio italiano è una spinta alla fine dell’austerità». Nell’articolo, si afferma che «Letta è subito intervenuto nell’urgente
dibattito dell’Eurozona, mandando un messaggio forte a Bruxelles
e Berlino sulla necessità di un cambio di direzione». A Bruxelles Enrico Letta è stimato, sanno dei suoi studi europei, del passato di eurodeputato (tra il 2004 e il 2006 allora nei liberali con la Margherita). E sanno che è un fautore delle liberalizzazioni e del metodo comunitario, con la Commissione Europea con ruolo chiave. Tuttavia è chiaro che – se davvero riuscirà nell’impresa di formare un governo con Silvio Berlusconi – il “giovane” premier italiano, oltretutto con il fiato sul collo del Pdl e della rabbia popolare per la crisi, sarà più che determinato nel far cambiare rotta all’Europa. La Germania, alle prese a sua volta con la campagna elettorale (si vota il 22 settembre), è sempre più sotto pressione e si trova affiancata ormai pienamente, almeno nell’eurozona, solo dalla Finlandia e dal minuscolo Lussemburgo (l’Austria è divisa tra socialdemocratici e popolari, l’ex ultrarigorista Olanda ha scoperto a sue spese che troppa austerity fa male). Ormai un po’ tutti stanno riconoscendo che l’austerity maniacale in salsa tedesca ha solo portato a un progressivo avvitamento delle economie dei paesi che seguono le ricette di Bruxelles – basti guardare quel che succede in Portogallo o in Grecia, ma anche nella stessa Italia e in Spagna. Il caso ha voluto che proprio oggi, in un’audizione piuttosto infuocata davanti alla Commissione Affari economici del Parlamento Europeo, lo stesso commissario europeo competente, Olli Rehn, si sia affrettato a dichiarare che «il ritmo del consolidamento (di bilancio ndr) sta rallentando in Europa»: secondo Rehn «lo sforzo strutturale di bilancio sarà pari (in media, ndr) allo 0,75% del pil nell’eurozona, circa la metà dello scorso anno, che era pari all’1,5%». Un progresso, spiega il commissario, dovuto a tre fattori: i risultati di risanamento dei vari stati eurozona (con un forte calo del deficit medio, dal 4,2% del 2011 al 3,7% del 2012), l’azione della Bce per stabilizzare i mercati e il rafforzamento della governance Ue. Il tutto mentre vari eurodeputati non hanno esitato a sputare la loro rabbia nei confronti della Commissione, «non le servono gli auricolari per la traduzione – ha tuonato la socialista portoghese Elisa Ferreira – per capire questa parola: basta!». La rivolta prende sempre più piede, solo pochi giorni fa, era intervenuto lo stesso presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso, uomo noto per esser piuttosto attento a dove soffia il vento. «Socialmente e politicamente – ha detto – una politica vista come solo austerity certamente non è sostenibile. Non abbiamo fatto tutto giusto, questa politica ha toccato i suoi limiti perché deve avere un minimo di sostegno politico e sociale». A dare man forte all’allentamento della morsa è tornato oggi di nuovo il Fondo Monetario Internazionale. «Vi è un rischio – ha detto il suo primo vice direttore generale David Lipton, nel corso di un evento a Londra – che l’Europa cada in stagnazione, che avrebbe serie implicazione per le famiglie, le imprese, le banche e altre istituzioni fondamentali». Per questo, avverte Lipton, «onde evitare questa piega negativa pericolosa, i governi devono agire per rafforzare la prospettiva di crescita». Dichiarazioni che irritano il governo di Angela Merkel. Problemi gravissimi come la disoccupazione giovanile o la bassa crescita, ha detto il ministro delle Finanze di Berlino Wolfgang Schäuble in un’intervista radiofonica, «non si possono risolvere facendo più debito. Sono stati proprio i debiti la causa della crisi in cui ci troviamo. Per questo dobbiamo proseguire l’intelligente politica che abbiamo formulato». Il governo tedesco, insomma, non si muove, ma non è che in Germania sia tutto fermo, complice l’economia che rallenta: è di pochi giorni fa il dato negativo sul pil tedesco per il quarto trimestre 2012 (-0,6%), mentre un colosso come la Volkswagen proprio per la crisi in Europa ha segnato nel primo trimestre un tracollo del 26% degli utili. Il candidato socialdemocratico alla cancelleria, dunque diretto sfidante di Merkel, Peer Steinbrück, ad esempio non condivide la posizione dell’esecutivo di centro-destra a Berlino: «l’austerity intrappola paesi come la Grecia in un circolo vizioso, senza crescita non possono sfuggire dai loro deficit». Dalla sua, però, Berlino ha ancora la Bce. Anzitutto, naturalmente, con il membro tedesco del board, Jörg Asmussen. «Rinviare il consolidamento di bilancio – ha detto allo stesso evento in cui ha parlato Lipton –non è un pasto gratis: significa più alti livello di debito. E questo ha costi reali nell’eurozona dove il debito pubblico è già elevato». Parole simili, ieri, anche dal vicepresidente della Bce, che non è tedesco, ma portoghese, Vitor Costancio: «l’aggiustamento economico – ha detto in un’audizione all’Europarlamento – è stato significativo e non dobbiamo metterlo a rischio smontando tutto ora». La battaglia, insomma, è entrata nel vivo, ma c’è da scommetterci che niente si sbloccherà fino al 22 settembre. Enrico Letta, intanto – sempre che si confermi premier – avrà modo di tessere la sua rete e le sue alleanze europee.

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