CON LA CRISI IL 99% HA SCOPERTO DI ESSERE POVERO
La disuguaglianza è in aumento dal 1980 ma solo di recente è entrata nel dibattito pubblico
Negli Stati Uniti le 421 persone più ricche detengono il 10,5 per cento del Pil
La disuguaglianza di reddito sta entrando nel dibattito pubblico a livello mondiale. Da il famoso slogan di Occupy Wall Street su 99% dei cittadini in opposizione all’1% dei più ricchi, all’allarme lanciato da Mario Draghi. Il presidente della Bce, durante la sua lectio magistralis del 6 maggio all’Università Luiss ha detto: «Da quasi vent’anni è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie che penalizza i più deboli». Draghi ha sottolineato che una più equa partecipazione alla ricchezza nazionale aumenta la coesione sociale e, incentivando comportamenti economici individuali, conduce «al successo economico».
Per far fronte al tema della disuguaglianza di reddito, sono stati pensati e approvati diversi provvedimenti. In Francia il presidente François Hollande ha voluto approvare una legge che portasse al 75 per cento l’aliquota sui redditi superiori a un milione di euro.Quello che era uno dei capisaldi dell’azione del suo governo socialista è stato annullato dalla Corte Costituzionale in quanto non si sarebbe applicata a tutto il nucleo familiare, come le altre tasse, ma ai singoli redditi. In Spagna e in Portogallo, i programmi di austerità prevedono alcuni misure volte ad aumentare la pressione fiscale per i più abbienti. Anche negli Stati Uniti, durante le elezioni presidenziali, si è molto discusso se aumentare le tasse per i redditi più alti. Non solo: nei paesi in via di sviluppo, come India e Cina, sono state poste serie critiche ai governi per non aver fatto abbastanza per ridurre la disuguaglianza sociale.
Sebbene la disuguaglianza sia comparsa nelle agende politiche solo negli ultimi anni, la disparità di reddito all’interno di molti paesi è in fortissima crescita dagli anni Ottanta. Il grafico mostra la variazione della disuguaglianza tra il 1980 e il 2010, il numero di miliardari e la dimensione del loro patrimonio, espressa come percentuale del Pil del paese. La disuguaglianza è aumentata in molti paesi tra cui Regno Unito, Canada, Cina, India e persino l’egalitaria Svezia.
Negli Stati Uniti questo problema emerge in maniera più eclatante. La disuguaglianza è da sempre una costante dell’economia statunitense, ma negli ultimi 30 anni il divario fra ricchi e poveri è aumentato. I dati mostrano che la percentuale del reddito in mano all’1 per cento più ricco degli statunitensi è più che raddoppiato, passando dall’8,18 per cento al 17,43 per cento. La quota che appartiene allo 0,01 per cento più ricco è più che triplicata, giungendo al 7,36 per cento del reddito totale rispetto al 2,23 per cento del 1980.
Il tema non ha mai avuto rilevanza nel dibattito politico americano, se non negli ultimi anni. Una spiegazione plausibile è che la crisi finanziaria del 2008 abbia smascherato la spaventosa concentrazione dei redditi in atto. Negli ultimi trent’anni era stata nascosta dal livellamento degli standard di vita e quindi la percezione della sua gravità era stata sottostimata. Prima della crisi, le bolle speculative e la facilità di accesso al credito hanno fatto sì che gli investitori si arricchissero e i cittadini americani potessero vivere al di sopra delle loro possibilità, ottenendo grossi prestiti offrendo come garanzia le loro case. Dopo il crollo del 2008, le iniquità del sistema sono emerse in tutta la loro brutalità: i salvataggi federali hanno permesso agli istituti bancari di salvarsi, mentre si è verificato un aumento della disoccupazione e degli sfratti forzati; ciò ha fatto sì che la curva di distribuzione dei redditi si schiacciasse ulteriormente a sfavore dei redditi medio-bassi.
Gli americani hanno un’idea distorta della disuguaglianza nella loro società. Almeno secondo Michael Norton, professore associato dell’Harvard Business School. Nel dicembre 2005, il docente condusse un’indagine su un campione di 5.522 individui, estratti casualmente da una popolazione di 1 milione di americani. L’obiettivo era comprendere il grado di percezione degli americani rispetto alla distribuzione della ricchezza (“what Americans think the distribution is”) e di identificare quale sarebbe la loro idea di “distribuzione ideale” (“ideal distribution”). Il video, creato da Charlie White, riassume i risultati dello studio.
Dai dati si evince che gli americani sottostimino il livello reale di disuguaglianza che esiste nel loro paese: per chi ha risposto il 20 per cento più ricco della popolazione detiene il 59 per cento della ricchezza, mentre nella realtà ne possiede una quota molto superiore, l’84 per cento.
Norton suggerisce due ragioni per cui la percezione degli intervistati sia così distorta. Primo, le persone tendono a interagire principalmente all’interno della loro classe sociale. Secondo, la facilità di accesso al credito delle famiglie americane permette di mascherare la loro vera situazione finanziaria. Il professore sostiene, ad esempio che se il tuo vicino possiede il tuo stesso modello di auto, è difficile capire se l’ha acquistata con soldi propri o ha chiesto un prestito. In questi casi è facile pensare: “Abbiamo lo stesso modello di automobile, credo che siamo ricchi in ugual misura”. Va aggiunto un elemento: se la variabile focale è la ricchezza invece del reddito si aggrava la distorsione. Tipicamente la distribuzione della ricchezza è più concentrata di quella del reddito e quindi la rappresentazione della disuguaglianza sarà più distorta.
Il secondo risultato è che la “distribuzione ideale” identificata nell’indagine è molto più equa persino della sottostima indicata dagli intervistati; per dirlo con i numeri, nei questionari si sostiene che il 20% più ricco della popolazione dovrebbe detenere il 32% della ricchezza contro il 59% stimato e l’84% reale. Ciò che sorprende è che questi risultati sono indipendenti dai livelli di reddito, genere e dalle preferenze politiche degli intervistati: gli americani, che siano ricchi, poveri o benestanti, che abbiano votato repubblicano o democratico nelle elezioni presidenziali del 2004, hanno unanimemente espresso la preferenza di una distribuzione della ricchezza più equa.
Tuttavia Norton fa notare come gran parte di questi risultati dipenda da come venga posta la domanda: se si chiedesse a un elettore repubblicano “Sei d’accordo con una redistribuzione della ricchezza per diminuire la disuguaglianza?” probabilmente la risposta sarebbe no. Un conto, secondo il docente, sono le idee astratte, un altro la disponibilità a votare politiche in linea con tali preferenze. Ciò dipende in gran parte dal fatto che gli americani tendono ad assumere che la ricchezza sia correlata al talento e all’ “hard work”.
Quindi gli americani prima della crisi sottostimavano il vero livello della disuguaglianza, ma questa errata percezione spiega solo in parte lo scarso rilevo del tema nel dibattito pubblico. Infatti, l’idea di mobilità sociale alla base del pensiero americano, il prevalere degli interessi particolari e degli ideali politici suggeriscono che gli americani rimarrebbero comunque restii a sostenere politiche per ridurre le differenze sociali.
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