REDDITO MINIMO GARANTITO, REALTA' O FALSA PROMESSA?
Il ministro Giovannini ha aperto all’ipotesi. Il caso della provincia di Trento Da lavoce.info.
Nel dibattito politico si riaffaccia il tema del reddito minimo (garantito, di inserimento, di solidarietà attiva, di inclusione, o come lo si voglia chiamare). Di recente Tito Boeri e Roberto Perotti hanno riaperto con lucidità la discussione.
L’arretratezza della situazione italiana risalta vistosamente dal confronto con i paesi dell’Unione Europea (1). Ma emerge altrettanto crudamente se si guarda a gran parte delle esperienze italiane di contrasto della povertà che si sono succedute negli ultimi quindici anni, a partire dal reddito minimo di inserimento (Rmi), e dallo stesso modo confuso con cui l’argomento è affrontato nel discorso pubblico.
Nel 1998 il Rmi era decollato in maniera promettente, come sperimentazione su piccola scala – in una quarantina di comuni – orientata ad “apprendere dall’esperienza” in vista di una auspicabile generalizzazione del programma alla scala nazionale.
Ma le cose sono procedute in maniera contraddittoria e confusa, a causa di due cesure, dovute rispettivamente al ciclo politico e al riassetto in chiave “federalista” introdotto dalla riforma costituzionale del 2001.
Al ciclo politico si devono la chiusura dell’esperienza del Rmi, sostituito con la Legge finanziaria per il 2004 da un fantomatico “reddito di ultima istanza”, mai attuato. Ancora più solerte, poi, è l’abrogazione, dopo una manciata di mesi, nel maggio 2008, del reddito di base del Friuli Venezia Giulia, decollato nel settembre 2007.
In entrambi i casi, ciò avviene col subentro di un’amministrazione di centrodestra a una di centrosinistra. E non si tratta soltanto di chiusure di specifiche esperienze, ma di cambiamenti di rotta, che accantonano la prospettiva stessa di un’organica politica di contrasto della povertà in favore di molteplici interventi che poggiano sul tradizionale impianto categoriale del welfare italiano, su maggiori margini di discrezionalità, su un sovraccarico di compiti affidati agli enti locali, per di più accompagnato da trasferimenti di risorse magri quando non decurtati.
La riforma costituzionale del 2001 comporta l’ulteriore spostamento delle competenze in tema di assistenza sociale dallo Stato alle Regioni. Stimola sì l’iniziativa delle Regioni, ma è un’iniziativa tanto vivace quanto segnata da inadeguatezze. Esemplari, in proposito, sono le carenze, quando non le incongruenze, del reddito di cittadinanza (!) della Campania e del reddito minimo garantito del Lazio.
Due le evidenze salienti, e preoccupanti. La prima è che si parla di «sperimentazione», ma in sostanza si afferma che i programmi sono provvisori, di breve durata, segnati dalle ristrettezze del bilancio.
La seconda è che si imbocca l’illusoria strada dei pronunciamenti enfatici (il titolo della legge campana è rivelatore), affiancati da programmi che li contraddicono: nelle due Regioni l’intervento consiste, di fatto, nel solo trasferimento monetario, per di più in cifra fissa quindi neppure correlato ai fabbisogni delle famiglie povere (nel Lazio addirittura è su base categoriale e personale); vi è un forte razionamento, sicché la percentuale di beneficiari rispetto ai richiedenti ammissibili è decisamente bassa.
In sostanza, non si sono venuti consolidando strumenti in grado di dare attuazione a un coerente, progressivo impegno sul versante della lotta alla povertà. E c’è da interrogarsi se ci sia, nelle classi dirigenti, così come nell’opinione pubblica, adeguata consapevolezza dei termini del problema. Ne sono una spia la sciatta disinvoltura con cui in appelli pubblici si parla, vagamente, di “reddito di cittadinanza”; o tout court il fatto che lo si nomini a sproposito, quanto si avanza una proposta (dal Movimento 5 Stelle, se ben capiamo) che nulla c’entra: quella di un reddito minimo a termine, di tre anni, per i senza lavoro .
Il caso della provincia di Trento
Ma un serio, sostenibile, reddito minimo si può cominciare a realizzare. A breve, Acli e Caritas lanceranno un “patto aperto contro la povertà”, che poggerà su una circostanziata proposta di introduzione progressiva del “reddito di inclusione sociale” (2).
Inoltre, qualcuna delle esperienze in atto si iscrive fra le virtuose.
Il caso più recente è quello del reddito di garanzia (Rg) della provincia autonoma di Trento: un trasferimento monetario che porta a 6.500 euro annui il reddito disponibile equivalente (in base all’Icef, l’indicatore trentino della situazione economica familiare, una versione affinata dell’indicatore nazionale), accompagnato da azioni di integrazione sociale e di attivazione al lavoro.
I lineamenti amministrativi e finanziari del Rg sono stati recentemente illustrati da Gianfranco Cerea. Qui ci soffermiamo su analisi della sua equità ed efficacia, che l’Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (Irvapp) ha iniziato a condurre dal momento in cui il programma è stata disegnato.
Un primo indicatore del grado di equità di una politica di sostegno al reddito (e l’unico che qui considereremo) è costituito dal fatto che sia molto alta la proporzione dei beneficiari che hanno davvero titolo per riceverla, che non ci siano cioè “falsi positivi”. Nel corso del primo anno di applicazione della misura (2010), gli uffici della provincia di Trento – attraverso accurati controlli – hanno accertato che circa il 7 per cento delle famiglie inizialmente ammesse alla misura non rispettavano le condizioni di ammissibilità.
I controlli sono stati poi rafforzati affiancando all’Icef un “controllo dei consumi” e attraverso interventi della Guardia di finanza. La numerosità dei falsi positivi si è sensibilmente ridotta e si può ragionevolmente assumere che oggi la loro presenza sia pressoché nulla.
La questione più importante che pone un programma quale il Rg trentino riguarda, però, la sua capacità di migliorare le condizioni di vita delle famiglie beneficiarie. Su questo argomento, Irvapp ha svolto una rigorosa valutazione degli effetti secondo l’approccio controfattuale. Sono state condotte due rilevazioni, a distanza di due anni l’una dall’altra (2009 e 2011), su un campione di 600 famiglie che hanno avuto accesso al Rg e su un campione di oltre 900 famiglie con reddito disponibile equivalente superiore, ma non troppo, alla soglia dei 6.500 euro annui e si sono misurate le variazioni nelle condizioni di vita rispettivamente registrate dai due campioni, nel biennio.
Si è quindi calcolata la differenza fra queste variazioni – la cosiddetta differenza nelle differenze: nella ragionevole ipotesi che in assenza del Rg sarebbero state le stesse nei due gruppi, questa differenza fornisce una credibile stima degli effetti del programma. I risultati principali sono riassunti nella tavola che segue. Essa riporta la media dei miglioramenti (o peggioramenti) in alcuni significativi ambiti delle condizioni di vita conosciuti dalle famiglie trattate e imputabili causalmente al Rg.
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