RENZI E LETTA, I DUELLANTI DAI DESTINI INCROCIATI

Il conflitto fra il sindaco di Firenze e il presidente del Consiglio è sommerso tra le guerre nel Pd È destino che i due si cerchino, si spiino, si sfuggano, in un conflitto tormentoso e profondo. Sono figli della stessa storia, in comune hanno la giovane età e quel vago sapore di oratorio che in Italia è un modo speciale di essere di sinistra, tirare calci al pallone e andare a messa. Ma a dividerli è la politica, l’uno è il polo positivo, l’altro è il polo negativo del centrosinistra italiano. Non possono mai incontrarsi, Enrico Letta e Matteo Renzi sono destinati a sorti opposte, il successo del primo corrisponde alla sconfitta del secondo. Solo se Letta fallisce, per Renzi si spalanca l’orizzonte della leadership. Solo se Renzi rinuncia e si eclissa, Letta avrà vita facile tra i marosi del Pd. Così si aggiunge un duello nel duello, una nuova trama conflittuale che si attorciglia nella vita già pericolosa del partito matto e generoso, senza guida e senza dirigenza, che ora deve eleggere un nuovo segretario entro sabato e ritrovare pure una rotta stabile prima di andare alla deriva in balia della tribù ululante di Beppe Grillo. Se vince Letta le cose saranno in un modo, se la spunta Renzi saranno completamente diverse, ma alla fine c’è un principio assoluto che regola da sempre i rapporti tra gli avversari di un epoca, c’è una solidarietà di spirito, un legame dell’anima. «E’ straordinario come quell’uomo, in un modo o nell’altro, sia riuscito a legarsi ai miei sentimenti più profondi», fa dire Conrad al vincitore D’Hubert nelle pagine conclusive dei Duellanti. «È arrivato a Palazzo Chigi grazie a una scorciatoia», dice Renzi del suo alter ego Letta, il presidente del Consiglio del governo delle larghe intese. E si capisce che Renzi non ci crede al governo con il Caimano, «che non è un uomo di stato e non può fare le riforme», e che in fondo il sindaco di Firenze, lui, si è stancato di aspettare, vuole prendere tutto e subito, e si è convinto che sia necessario dare una pietosa spinta a un governo che scivolerebbe comunque da solo giù giù nel crepaccio. Secondo l’indole cattolica di Renzi, il governo di Letta è uno sgarro di calcolo nell’abaco del creato, un esperimento di ingegneria che sfida le leggi della fisica, che non può stare in piedi, vantaggioso per il solo nemico Berlusconi, un governo gravido di quaranta sottosegretari come ai tempi di Andreotti, appesantito dal clientelismo dei Gianfranco Miccichè, in definitiva un pasticcio inaccettabile per la sinistra. L’altro, il giovane presidente del Consiglio, in pubblico fa spallucce, sopire, troncare, troncare, sopire, ma poi Letta si guarda alle spalle e vede Renzi scalpitare e farsi avanti sempre più spavaldo: lo capisce, lo conosce perché rivede sé stesso negli occhi dell’altro, forse a volte teme questo suo energico avversario, ma sa come fermarlo. Letta pensa che Renzi abbia i calzoni ancora troppo corti, pensa che l’impazienza un po’ mocciosa del suo avversario sia una fortuna e l’arma più forte da rivolgere contro il sindaco ragazzino: tra i duellanti è solo Letta quello che parla le lingue, solo Letta è accreditato nelle cancelliere europee ed è introdotto da Giorgio Napolitano, solo Letta può pensionare i vecchi dirigenti del partito garantendo a ciascuno dei generali a riposo che non saranno consumate vendette né oltraggi, ma che ognuno potrà al contrario mettersi ordinatamente in fila alla porta del nuovo padrone del campo per ricevere l’onore delle armi e una congrua buona uscita. E dunque Renzi contro Letta, e Letta contro Renzi, uno stile felpato contro un incedere baldante, due modi d’essere democristiani nell’Italia moderna. Già si scontrano, e sempre più allo scoperto, con sempre meno cautela, perché la vita dell’uno è la morte dell’altro, si regna uno alla volta, non possono esserci due salvatori della patria. La loro sta per diventare una riedizione dei Duellanti di Conrad, c’è un’eco dello scontro tra Ettore e Achille, l’Asia e la Grecia, il cavaliere bianco e il cavaliere nero. Sono due figli della stessa storia che a volte si confondono, e neppure si capisce chi dei due sia più vicino al modello originale, alla vecchia dc, chi dei due sia il vero getto vegetale dell’antica pianta democristiana. Ed è certamente appassionante seguirli e osservarli, Letta e Renzi, sempre di più immersi nel loro conflitto che serpeggia e scoppietta, ma che pure democristianamente mai davvero esplode, sommerso com’è tra le mille guerre che ancora attraversano il Pd. Non un partito, ma un campo di battaglia, polveroso e confuso al punto da rendere talvolta persino inintellegibili le forze in campo, la qualità e la quantità degli eserciti che stancamente si fronteggiano ormai da troppo tempo. Nelle stanze di Largo del Nazzareno, negli antri bui dove si agitano ancora lunghissimi coltelli, si muovono sempre, ma incappucciati nell’ombra, i soliti Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi e Dario Franceschini e Beppe Fioroni, segno che le vecchie battaglie non sono mai davvero finite, perché nel Pd l’odio non si sedimenta mai, ma agli antichi rancori si aggiungono i nuovi, alle nuove contrapposizione le vecchie, in un marasma che allude a una lugubre disintegrazione. Come dice Pippo Civati, giovane deputato milanese, «i vertici vogliono rimanere al vertice. Se è così, a noi il Pd ci toccherà farlo da un’altra parte». Veltroni ritorna con frequenti incursioni sui giornali ed è generoso di consigli per i giovani (contro i vecchi suoi coetanei), e D’Alema si scontra con Bersani per la successione alla segreteria del partito bagolante, ognuno con il suo campione, Gianni Cuperlo contro Guglielmo Epifani, una lotta per interposta persona, vecchi e nuovi duelli per il potere cui Letta e Renzi si sottraggono ma solo perché impegnati nella battaglia più importantate di tutte, quella fredda e asimmetrica che li vede contrapposti non per la leadership del Pd ma, molto di più, per la guida dell’Italia. Pare il Caos che i greci collocavano all’origine dell’universo fra le nebbie della creazione. Con la sola differenza che qualcuno vi scorge il principio della fine, di una vera fine, e non di quella che prelude al principio di un principio.

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