FONDI AI PARTITI, IMPORTARE IL SISTEMA DI NEW YORK

In Italia sul tema «si fa solo demagogia». Ma per Galletto, fundraiser della campagna di Obama, «servirebbe un sistema misto di finanziamenti pubblici e privati». Che non privilegi i ricchi. Gianluca Galletto fa parte della direzione nazionale del Partito democratico (Pd) dal 2010, ma non aveva mai preso la parola al grande meeting della nomenklatura. Ha deciso di farlo il 6 marzo, nell'ultima riunione del direttivo trasmessa in streaming da Youdem. «Vivo a New York da 17 anni, faccio parte del Pd americano da più 10, eppure, per la distanza che c'è con il Pd italiano, mi sento alla periferia del mio partito», spiega a Lettera43.it. RACCOLTA FONDI PER OBAMA. Galletto, che non nasconde la delusione per non essere stato eletto nella circoscrizione estera, fa parte di una delle tante organizzazioni che si sono occupate di raccogliere fondi per la campagna elettorale di Obama, il Gen44, e sul tema del finanziamento ai partiti ha qualcosa da dire al suo: «Si fa molta demagogia, tra abolirlo del tutto o non abolirlo proprio. Bisogna trovare un equilibrio, perché è una questione di cruciale importanza per il rapporto tra eletti ed elettori e per la trasparenza del processo democratico». CAMPAGNE DEMOCRATICHE. Negli Stati Uniti, Galletto ha partecipato da fundraiser a molte campagne elettorali democratiche, non solo quelle di Obama del 2008 e del 2012. «Ho lavorato alla raccolta fondi per Al Gore alla presidenza e per Hillary Clinton al Senato nel 2000, e a quella del vicepresidente John Edwards nel 2004». Conosce bene il sistema di finanziamento ai candidati che regola la vita politica negli Stati Uniti e ha una proposta per l'Italia: «Importare il sistema della città di New York, che a mio avviso è il migliore perché mixa finanziamenti pubblici e privati - il cosiddetto matching - e garantisce pari opportunità a tutti, senza privilegiare i ricchi, trasformando la raccolta fondi in uno strumento per ampliare la partecipazione dei cittadini al processo democratico». DOMANDA. Perché è contrario all'abolizione tout court del finanziamento pubblico ai partiti? RISPOSTA. Il finanziamento privato, se non regolato in maniera ferrea, rischia di favorire innanzitutto i ricchi, chi hanno soldi loro e non li raccolgono, e pone una questione di pari opportunità d'accesso alla campagna elettorale. Una questione che solo in parte può essere risolta con i tetti alla spesa e che produce un'altra distorsione. D. Quale? R. La dipendenza dei politici - e dalle lobbies che li finanziano - anche dai cosiddetti “collettori di fondi”, i bandlers. In America esiste una vera e propria categoria professionale, i fundraisers, gente che di professione raccoglie denaro per la campagne elettorali. I più potenti, quelli capaci di aggregare il maggior numero di finanziatori, finiscono per avere sui candidati un'influenza maggiore rispetto al cittadino donatore. D. Negli Stati Uniti, però, ci sono decine di leggi diverse sul finanziamento ai partiti e molte prevedono anche la possibilità di fondi pubblici. R. Ogni Stato e la maggior parte delle grandi città hanno un loro ordinamento. Poi c'è la legge federale per la campagne di Senato, Congresso e presidente. Lo stato di New York ha probabilmente la normativa peggiore, che ha prodotto minore trasparenza e un maggior numero di casi di corruzione. D. Come funziona? R. Una premessa: il sistema americano e quello anglosassone sono centrati sul candidato, non sul partito, e tutte le regole sono pensate per la campagna del singolo parlamentare. La legge dello Stato di New York prevede un limite molto alto nel contributo personale privato al candidato, circa 50 mila dollari a persona, e rende più facili le offerte da parte di società e aziende senza la disclosure (rivelazione) totale del nome di chi ha donato. Un escamotage per aggirare la tracciabilità della donazione. È una legge poco trasparente rispetto ad altre e favorisce di più i bandlers e i lobbisti. D. Quale è il sistema migliore? R. La legge della città di New York, che fu approvata in seguito a una serie di scandali alla fine degli Anni 80 grazie al grandissimo sindaco Koch, l'uomo che diede il via alla rinascita della città. D. Che cosa prevede? R. Il candidato può non chiedere fondi pubblici e fare la campagna con i suoi soldi, come Michael Bloomberg, per esempio. Ma chi si sottopone al programma statale ha molti vantaggi e tendenzialente lo fanno un po' tutti i non miliardari. Per ogni dollaro donato da un sostenitore, la Città offre al candidato un contributo pari a sei volte la cifra donata. Questo per le donazioni massimo fino a 175 dollari. D. Quindi, chi raccoglie un dollaro privato è come se ne avesse in cassa già sette? R. Sì, ma con dei limiti. Se si raccolgono 1000 dollari, la Città non ne concede 6000 ma 1050 perché il tetto è a 175 dollari. L'obiettivo è evitare la dipendenza da interessi particolari e dai fundraiser e incentivare la raccolta di piccole donazioni piuttosto che di grandi finanziamenti. D. Una sorta di crowdfunding. R. Il candidato deve sforzarsi di incontrare più persone per raccogliere i fondi e non limitarsi a fare quattro cene con ricconi che lasciano assegni da 50 mila dollari ognuno. È un incentivo alle piccole donazioni e alla partecipazione delle persone al finanziamento e, dunque, anche al processo democratico. Questo viene combinato con un tetto di spesa di circa 3 milioni e mezzo e i bonus per i candidati che hanno raccolto meno. D. Chi supervisiona su tutto il processo? R. Una commissione elettorale bipartisan, il board of elections. Per chi viola le norme ci sono sanzioni molto severe. Si arriva anche alla decadenza dall'incarico. In Italia invece... D. Liberi tutti. R. Qui c'è il tetto di spesa, ma non lo rispetta nessuno. I finanziamenti privati ci sono ma sono extrabilancio e le sanzioni sono minime. Per questo, propongo il sistema di matching della città di New York, pubblico-privato: eliminerebbe sprechi e squilibri. D. Come si fa, però, a legare il finanziamento pubblico ai partiti al livello di democrazia interna degli stessi? R. Bisogna introdurre regole di democrazia che incentivino ad avere una assemblea, un consiglio, degli organi eletti. Parlo di incentivi perché non deve essere un obbligo prescrittivo. Io sono dell'idea che non sia utile regolare reprimendo. D. In America c'è questa correlazione? R. No, perché la democrazia interna esiste a prescindere dai finanziamenti, i partiti sono regolati per legge, i loro statuti sono redatti in osmosi con le leggi statali e federali. D. Lei fa parte del cosiddetto Gen 44. Ci spiega che cos'è? R. Gen 44 sta per generazione 44, quella del 44esimo presidente degli Stati Uniti. È un'organizzazione nata per raccogliere fondi rivolgendosi però a un target specifico, quello dei young professional, che non hanno capacità di donazioni elevate. D. Come lavorate? R. Pensando a eventi che siano più appetibili per questo tipo di pubblico. A giugno dell'anno scorso, per esempio, abbiamo organizzato in un teatro di Brooklyn una cena con Bill Clinton, Obama e alcune celebrity. C'erano circa un migliaio di persone. Vendemmo una serie di biglietti a 1000 dollari, il prezzo più alto, e molti altri a 150 dollari. D. Non poco. R. No, per un giovane professionista newyorkese. Lo scopo era di far partecipare più persone con minore capacità di spesa, quindi più giovani, e far sì che diventassero a loro volta mobilizzatori di altri voti. D. Un modo per fidelizzare l'elettorato. R. E per responsabilizzare i candidati, che devono andare in giro a raccogliere i soldi, non ce li hanno di default. Così si crea un rapporto candidato-donatore che è uguale a quello dell'investitore. D. Finita la campagna elettorale, che cosa fa il Gen44? R. Si riorganizza. Nella filosofia di Obama, tenere in piedi la struttura della campagna anche dopo il voto è fondamentale per mantenere vivo il rapporto con la base, che è costantemente mobilitata. Ora, per esempio, stiamo lavorando sul sequestrer: il compito è spingere l'opinione pubblica a fare pressione sui propri rappresentanti congressuali di riferimento per arrivare a un accordo. D. Quanto conta in questa mobilitazione costante dell'elettorato l'uso del web? R. La campagna di Obama, e la sua presidenza, in gran parte vivono online. Ma i dispositivi digitali sono intesi principalmente come uno strumento di organizzazione, più che di comunicazione: consentono alla singola persona di organizzare meetup, eventi in casa, e di interagire con lo staff del presidente. D. Un uso simile a quello del M5s? R. Più interattivo, anche se è importane capire una cosa: Obama vive sul web ma non vince per quello. La grandezza delle campagne del presidente è nell'organizzazione, spaventosamente ben fatta, precisissima, superdisciplinata, con una potenza di fuoco sul territorio. Obama aveva 800 uffici territoriali sparsi del Paese, una rete capillare personale, di faccia a faccia, impressionante. Gli altri candidati ne avevano la metà o addirittura meno. D. Rete sì, dunque, ma molto territorio. R. È la cosidetta retail politics, la politica al dettaglio. Non esiste uno strumento più importante degli altri nella campagna elettorale. Da questo punto di vista, in Italia siamo indietro di decenni. Stiamo troppo in tivù, pochissimo sul territorio e non usiamo la Rete. Non c'è il porta a porta, non si mobilitano i volontari, che pure ci sono (vedi primarie), in maniera costante e per un periodo prolungato di tempo. D. Perché? R. Semplicemente perché non c'è la professionalizzazione delle campagne. Negli Usa è un lavoro. Il campaign manager è un amministratore delegato, come il tesoriere. Non fa politica, non si candida, non interviene alle convention. È un professionsita con degli obiettivi da raggiungere. Stefano Carluccio

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