Re Giorgio
Dando totalmente ragione a Giorgio Napolitano, con un’apposita nota, intorno alle ore 20 di quest’oggi, la Consulta «ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08 [relativo alla Trattativa Stato-mafia, n.d.r.] e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271, 3° comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti». Al di là dell’italiano (molto faticoso per chi legge), qualcosa in essa non torna.
L’unico articolo cui è stato fatto riferimento si occupa dei «divieti di utilizzazione di intercettazioni di conversazioni o comuni», da applicare a quelle che non hanno rispettato le predisposizioni di base (comma 1) e a quelle coinvolgenti in particolare ministeri, uffici e professioni che possano prevedere l’opposizione del segreto (comma 2): in questi casi, «[i]n ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni [...] sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato».
Ci si chiederà cosa c’entri l’art. 271 col Presidente della Repubblica: nulla, in linea di principio; molto, visto che la Consulta ha accolto in toto la linea di Napolitano (per un confronto con quella della Procura, si veda l’Ansa), che aggiunge alle categorie di in-intercettabili anche la prima carica dello Stato con una particolare lettura della legge 219 del 1989, relativa ai reati previsti dall’articolo 90 della Carta, ovvero l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione da parte del Presidente della Repubblica, formalizzabili solo con l’accusa diretta da parte del Parlamento, riunito in seduta comune.
Cosa dice la norma? Che, in caso di denuncia, l’inchiesta è gestita da un comitato ad hoc, formato dai componenti delle Giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e Senato (art. 12 della legge Costituzionale 11 marzo 1953, modificato dall’art. 3 della legge costituzionale 16 gennaio 1989), che possono disporre l’intercettazione delle comunicazioni del Presidente solo «dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica» (art. 7, comma 3), fatto che in questo caso non s’è verificato. Queste sono, ad oggi, le motivazioni parziali per le quali Napolitano ha vinto il suo ricorso contro la Procura di Palermo.
Problema: la legge che darebbe ragione alla prima carica non vieta di intercettarne le telefonate in maniera assoluta, anzi, lo consente in presenza di un procedimento penale che lo coinvolga in prima persona prevedendo un’apposita commissione. Peccato che, nel caso specifico, l’indagato (ancora in attesa di sapere se verrà rinviato a giudizio) sia Nicola Mancino, ex ministro, presidente del Senato e del Csm, non Napolitano, il cui coinvolgimento nell’inchiesta è stato a più riprese escluso dai pm palermitani.
Peccato, in sostanza, che la norma sia stata decontestualizzata per essere applicata in una situazione totalmente diversa, casualmente l’unica a norma di legge che consentirebbe la distruzione immediata delle intercettazioni senza passare per il confronto tra le parti, uno dei principi del garantismo (art. 111 della Costituzione, comma 3: «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova»).
Aspettando le motivazioni ufficiali, che ci auguriamo ben più corpose e in grado di allontanare spiacevoli dubbi sull’operato della Consulta (lo stesso organo che – è il caso di ricordarlo – ha quasi sempre stoicamente resistito ai bombardamenti di vent’anni di berlusconismo all’art. 3 della Costituzione, che oggi appare molto indebolito), vi sottoponiamo la più evidente fra le molte altre incongruenze dell’intera vicenda. Se Napolitano si è mosso esclusivamente per difendere le prerogative della massima carica repubblicana, perché non ha portato di fronte alla Corte costituzionale anche la Procura di Firenze che, come quella di Palermo, tra il 6 marzo e il 9 aprile 2009 ne ha intercettato le conversazioni telefoniche con un indagato, l’allora San Guido Bertolaso? Il caso è identico, ma la mossa di Re Giorgio è stata totalmente diversa: oltre all’oggetto dell’inchiesta (da una parte quella sulla famigerata Cricca, dall’altra la Trattativa), cambia anche il contenuto delle conversazioni con gli indagati? Presidente, togliamoci il pensiero: renda pubblico tutto e non se ne parli più.
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